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Anche in Ospedale si ride - IL MOZZO

IL MOZZO

Ottobre 2007

Durante la mia degenza al Don Gnocchi di Sarzana accadde un episodio veramente divertente. Era il mese di ottobre e nel mio reparto fu ricoverato un livornese, il signor Nicolò, uomo molto simpatico di circa settanta anni, anche lui operato alla schiena come me, e per questo sottoposto a riabilitazione. Dopo aver fatto conoscenza, andammo a fare la fisioterapia. Finiti gli esercizi, pranzammo e subito dopo andammo a fare la pennichella prima di un’altra seduta di fisioterapia.

La prima notte Nicolò la passò serena e così anche la seconda, ma già alla terza qualcosa cominciò ad andare storto, egli si lamentò tutta la notte perché sentiva freddo. Il personale di turno si dette subito da fare per alleviare questa sua sensazione, dico sensazione perché in camera non c’era il freddo che diceva.

Il personale lo assecondò in tutte le maniere e dopo essersi lamentato tutta la notte si ritrovò il letto con un lenzuolo, due copriletti e ben tre coperte di lana, che se li avessero messi nel mio letto avrei fatto sicuramente la sauna. Si tranquillizzò per poche ore, ma ricominciò ad agitarsi a tal punto da prendere il telefonino e alle 4:30 del mattino chiamò sua moglie a casa dicendogli: “Gina, aiuto mi hanno messo a dormire in uno scantinato buio e freddo e per giunta anche umido. Ho freddo e ho paura che qui ci morirò”.

Penso a quella povera donna che svegliata nel cuore della notte. Per poco non le prese un coccolone ma cercò di tranquillizarlo. La stessa mattina la sig. Gina alle ore 7 era già in reparto per capire cosa fosse successo quella notte. Dopo la visita dei medici gli fu spiegato che si trattò solo di febbre alta e che il marito aveva delirato. Ma il bello doveva ancora venire, passammo una giornata all’insegna dell’esercizio fisico e di chiacchiere per conoscersi meglio. Andò tutto bene sino a che non giunse l’ora di andare a letto e dormire.

Nicolò si addormentò ma rincominciò ad agitarsi molto, e a parlare nel sonno: un tormentone che durò parecchio. Diceva:“Basta! Ho detto basta! Levatemi dal letto tutte queste ACCIUGHE e tutto questo SALE che ho addosso, non le sopporto più”. A sentirlo ripetere continuamente questo ritornello, mi allarmai e suonai il campanello per fare intervenire il personale di turno; arrivò subito una OSS (operatrice socio sanitaria ), che cercò di tranquillizzare Nicolò ma egli continuava a ripetere la solita solfa. Poi disse alla OSS: “Mi tolga d’addosso tutto questo SALE mi aiuti. Prenda una o due, anche tre secchi d’acqua e me la tiri addosso la prego”. Dopo circa 10 minuti l’assistente non sapendo più cosa fare cercò di accontentarlo schizzandogli alcune goccia d’acqua sul viso, ma lui si accorse subito che non erano secchiate d’acqua come aveva ordinato ma solamente poche gocce. S’infuriò come un cane rabbioso e le sue parole furono ancora più arroganti e con tono minaccioso apostrofò la malcapitata : “Cosa stai facendo con quelle quattro gocce d’acqua? Ti avevo detto di tirarmi delle secchiate, pensi di prendermi per il culo? Forza fai quello che ti ho ordinato!

Nicolò si agitò e urlò per altri 5 minuti poi improvvisamente si calmò e si addormentò.

Dopo un’ora circa mi svegliai con un braccio tutto bagnato, ma non realizzai subito il perché di quell’acqua sul braccio. Adesso era Ugo, il vicino di letto di Nicolò, ad urlare. Era veramente incavolato. Io pensai : “Ecco fatto, ha smesso uno e comincia l’altro“. Accesi la luce per capire cosa stesse succedendo e vidi Ugo seduto sul suo letto tutto bagnato fradicio: con tutti i capelli bagnati, l’acqua gli grondava dal mento sino in mezzo alle gambe e le rivolgendosi a Nicolò diceva: “ Oohh ma cosa ti ho fatto?”

E giù bestemmie. “Mira come te me cunzo, te me dato una grossa arsaquata ma me non ti ho fatto niente “, gli disse Ugo in castelnovese. Nicolò con una bottiglia d’acqua da un litro e mezzo in mano bagnava tutto e tutti quelli che si trovassero nel raggio dei suoi schizzi.

Aveva fatto un lago d’acqua intorno a lui. Mi affrettai a suonare di nuovo il campanello, arrivò tutto il personale che si rese conto che Nicolò aveva ricominciato a dire le solite cose “levatemi le acciughe dal letto, ripulitemi il corpo da tutto questo sale”, ancora una volta era convinto di essere “sotto sale”. Quando l’infermiere entrò in camera Nicolò gli disse ad alta voce come se fosse un ordine da comandante: “Tu mozzo scendi giù in cambusa a prendere due scatole d’acciughe e portale in coperta!” La risposta dell’infermiere fu immediata: “Ci vado domani mattina presto, le mangeremo a colazione!” Ne seguì una risata generale, ed io nel mio letto piangevo dal ridere a più non posso.

Ci volle circa una mezzora per sistemare il tutto e asciugare il pavimento che Nicolò aveva trasformato in una piscina. Finalmente, alle cinque del mattino riuscimmo di nuovo dormire. Naturalmente Nicolò al mattino del giorno dopo non ricordava assolutamente nulla di quello che aveva combinato nella notte. Io, avendo preso un po’ di confidenza, cercai di spiegargli i fatti che avvenivano di notte ma lui mi diceva: “Mi prendi in giro?” Ma credo di aver capito cosa scatenava la sua follia notturna. Noi mangiavamo, allo stesso tavolo, solo a colazione; gli altri pasti li consumavano in tavoli differenti, però anche se eravamo distanti una sera mi accorsi che la moglie Gina lo faceva cenare a suon di vino rosso, e quindi feci due più due e capii che alcol e medicine non andavano d’accordo. Scatenavano gli incubi nella nottata.

Son passati dieci anni da quelle notti agitate, ma quando mi tornano in mente mi scappa sempre una risata.

Manrico Raggio

Boscà e l'Arsì (in dialetto castelnovese)

BOSCÀ E LARSÌ

Boscà, cossì ir ciamee, gea sempre pei boschi a fae legna per scardae a cà e peosi pea bestia. I gavea i zufi fina n’ zimo aa fronte, do zigi ai occi chi paee di penei e bafi aa garibaldina.
Gea n’omo de paola e i te miea con oci da amico, ma i se fea respetae.
L’Arsì, su mogea, l’ea na bea dona, fata ben e formosa come l’usee na vota. Bastea che te la miese a munzee a vaca per fartene n’idea; me a stea lì visin, e quande l’andea n’da stala er me ciamea: “Gianin !“- così er me ciamea perchè a son sempre sta mingherlin- “vene a buttae zu en po’ de fen de cor bon, così a vaca er magna e le sta bea ferma mentre a la munzo”.
Me, a ea ancoa ragazo, ma a comenzea a sentie er besogno de vedee cose ghea soto i vestiti da dona. Nea mia come mò ch’i van ar mae a vedee a bea ragaza che len meza nuda, a chi tempi i bagni a gi fee en der Betigna, ar “Traaton”. Soto a cascata de Sopran, gh’ea ‘n ber bozo e lì, nea giornata carda d’agosto, i s’artroee casternoesi e moin de pianesi, a fae er bagno, chi nudo, chi in mutanda, tanto aee tuti ragazi masci.
D’a ota andee en da vasca del’orto de Boscà a fae er bagno nudi: ma a ragaza dè lì er se fee a posta e, quande a eo drento a vasca, curiosa de vederse nudi, l’apiatee i vestiti po’ er ne miee e er s’ aridee come mata!
Tornando all’Arsì, me piasea miarla prepararse a munzee; come se sa a stala l’è sempre carda e besogna levarse da roba de dosso per munzee. Aloa er cominzea a levarse a blusa, e subito er metea ‘n mostra do bei pipin ch’er paea a Madona de’ desideri; po’ er se butea ‘ndré i zufi, er pijea er bancheto, er ser metea soto ar cuo, po’ er se tiea su a gona e er se metea er seciello tra a gamba che l’ee così ben fata da fae n’a lode ar creatoe. Po’ er se bagnea e man cor late e l’achiapea a popa da vaca en de n’a manea che te venia certi grili pea testa ! ! !
Fina er mi padron Filipo, chi gea avanti coi anni, al ritorno daa butega de comestibili de Pipo, i passea daa Betigna dove ghea da dona cor cuo per aia a lavae er bucato; aloa i me disea: “Ghe n’è una con en par de gamba, che se ben a son vecio, con le a me sentii d’arvenie zoenoto!”.
Na sea a ea a vegia, come se usea na vota: andea n’ da famighia contenti d’avee compagnia; Boscà e l’Arsì i g’avee testa che no’ visin s’andese a cà soa e no’, curiosi de conosee a vita intima de cuesta bea copia, a g’andee volentea. Cha ota Boscà gea de bon umoe e i ghe disea all’Arsì: “Arconteghe en po’ a prima nota!”

[...]

La Raccomandazione

La   Raccomandazione

La mia unica e ininterrotta attività lavorativa ha inizio nel 1960 con l'assunzione alla Cassa Marittima Tirrena ed ha termine nell'anno 2000 con l'andata in pensione per raggiunti limiti di età.

Mi si dirà : una bella fortuna poter trascorrere 40 anni della propria vita in un unico posto di lavoro, stessa macchina da scrivere (i computer non avevano ancora fatto la loro comparsa) e così via. Per la verità non proprio gli stessi: l'ufficio fu rinnovato per tre volte, per tre volte la scrivania con relativa poltrona, il telefono pure, il numero del rinnovo della macchina da scrivere (il mio principale strumento di lavoro) non lo ricordo esattamente.

Ebbene sì, posso dire che fu una fortuna anche in considerazione dell'oggi dove “il posto fisso” è quasi diventato un miraggio. Ulteriore obiezione : ma non ti sarà venuto a noia fare per 40 anni le stesse cose, svolgere le stesse mansioni?

A questa obiezione posso rispondere tranquillamente che no, io non mi sono mai annoiato, talvolta mi sono arrabbiato con i miei superiori, questo si, talvolta vi sono state scaramucce con il pubblico come accade in tutti gli uffici, ma poi tutto finiva li.

Dicevo non mi annoiavo perché tra le mie mansioni vi era anche quella di dialogare con il pubblico, intendo i marittimi, raccoglievo in un certo senso le loro anamnesi.

Con taluni poi si era instaurato un rapporto di amicizia data la loro ricorrenza delle loro comparse nei nostri uffici per motivi di lavoro.

Conoscevo un marittimo delle nostre parti del quale per ovvi motivi taccio il nome, che, in organico alla società Italia di Navigazione in qualità di cuoco o cambusiere non ricordo bene, faceva la spola sulle grandi navi di linea tra Genova e New York.

Le grandi navi come la Leonardo da Vinci, la Michelangelo, la Raffaello allora erano impiegate su questa tratta: poi prese il sopravvento l'aereo e tutto cambiò.

Fatto sta che questo signore, vuoi per motivi collegati all'imbarco e allo sbarco, vuoi per patologie varie veniva spesso alla Cassa Marittima Tirrena e discorrendo con lui del più e del meno mi raccontava come ormai fosse stanco di quell'andirivieni tra l'Italia e l' America e che avrebbe preferito un imbarco diverso.

Siamo intorno agli anni 80, forse più che meno, e un giorno me lo vedo arrivare in ufficio con la richiesta d'imbarco per i Rimorchiatori Riuniti di La spezia.

Dovete sapere che un imbarco sui rimorchiatori allora, ma anche oggi, era considerato una manna dal cielo per tanti motivi che non starò a dire, ma che sono intuibili, non ultimo quello economico.

Grande fu il mio stupore nel constatare che aveva lasciato la società Italia (che pure era un grande datore di lavoro) e che aveva trovato quello che andava cercando: un posto vicino a casa e ben retribuito.

Non potei trattenermi, dato anche il rapporto tra me e lui di chiedergli come fosse andata la cosa, chi lo avesse raccomandato, insomma quale santo avesse in paradiso per aver trovato un simile lavoro.

Per tutta risposta lui mi rispose “ Mi ha raccomandato il Re”.

Ora noi sappiamo che le raccomandazioni le fanno i politici, i potenti, gli amici degli amici, persino i preti se volete, ma un re, nell'era repubblicana, non lo avevo mai sentito.

“ Il Re ?” faccio io.

“Si, il Re Umberto II di Savoia” mi fa lui. E allora si mette a raccontare ed io ad ascoltare con la massima attenzione anche perché di mezzo c'era nientemeno che un re.

Ed ecco la sua storia.

“Devi sapere che la nave una volta salpata da Genova prima di affrontare la tratta oceanica diretta a New York, faceva immancabilmente sosta a Lisbona per fare bunkeraggio e rifornirsi di generi alimentari deperibili come frutta e verdura, operazione che prevedeva almeno una giornata di fermo nave. Io sapevo che nella vicina cittadina di Cascais si trovava la residenza di Umberto II di Savoia dove il sovrano si era trasferito in esilio dopo il referendum del 2 giugno 1946 che aveva sancito la fine della monarchia in Italia.

Prelevato dalla cambusa un bellissimo esemplare di salmone affumicato e dopo averlo acconciato in una dignitosa confezione, ottenuto il permesso di qualche ora da parte del comando della nave, mi dirigo alla volta di Cascais. Individuata Villa Savoia, residenza di Umberto II, suono senza indugio il campanello di casa.

Mi apre la porta un servitore gallonato, forse un maggiordomo, il quale mi chiede chi fossi e cosa desiderassi.

Mi presento e dico che sono un marittimo italiano di passaggio. Mentendo spudoratamente aggiungo che sono di fede monarchica, ragion per cui sarebbe stato per me un grande onore salutare ed ossequiare il re d'Italia e gli consegno come “piccolo presente” proveniente dall'Italia il salmone che tenevo sotto il braccio.

Il maggiordomo, chiamiamolo così, non fa una piega, accetta il regalo e mi prega di attendere nella sala di attesa. Dopo qualche minuto si apre il portone del salone di rappresentanza e mi si fa incontro Umberto II in persona.

L'incontro devo dire si svolge all'insegna della massima squisitezza, il re è molto gentile e cortese, mi fa molte domande sull'Italia e anzi mi invita a sedere e a prendere un caffè con lui.

Parlando del più e del meno mi chiede se il lavoro che facevo, quell'andirivieni tra l'Italia e l'America mi soddisfaceva.

Quando gli faccio presente che non ne potevo più e che aspiravo a qualcosa di meglio mi chiede in che modo avrebbe potuto aiutarmi. Io colgo immediatamente l'occasione.

Sapevo che nella flottiglia dei rimorchiatori di La Spezia uno di questi era di proprietà della flotta Lauro e per me sarebbe stato un sogno entrare a far parte di quell'equipaggio. Il rimorchiatore in questione si chiamava “Palmaria” ed è stato demolito qualche anno fa.

Rappresento tutto questo al Re il quale congedandomi mi dice : Io non posso prometterle nulla di preciso ma le do la mia parola che telefonerò a Lauro a Napoli per vedere quello che sarà possibile fare.

Non te la faccio tanto lunga, dico soltanto che al mio ritorno dall'America mi attendeva un telegramma nel quale mi si invitava a recarmi a La Spezia per prendere imbarco su quel rimorchiatore”

Potenza di una raccomandazione regale!!!

Polizze di Guerra

Polizze di guerra

Rovistando nei cassetti di vecchi mobili dimenticati o lasciati in eredità da anziani parenti , qualche volta, si ha la ventura di trovare vecchie foto ingiallite di familiari, lettere conservate e dimenticate o strani documenti che attirano la nostra curiosità facendoci scoprire singolarità impensabili.

Cosi è capitato all’amico Carlo Petacco quando ha scoperto, tra le cianfrusaglie conservate da uno stretto parente passato a miglior vita, una polizza di assicurazione sottoscritta da chi stava combattendo la prima guerra mondiale.

Quest’anno corre il centenario della entrata in guerra dell’Italia nella prima guerra mondiale, evento ricordato con la pubblicazione di qualche libro e con qualche manifestazione che commemora i nostri militari caduti nella così detta “Grande Guerra”. “Grande” solo per il numero degli stati, di tutti i continenti del mondo, coinvolti e per l’alto numero di vittime tra i militari e i civili. Uno dei più sanguinosi conflitti della storia del genere umano.

La stima del numero totale delle vittimenon è, ancora oggi, definito con certezza e varia dai 16 milioni a più di 17 milioni di morti, tra militari e civili (oltre 7 milioni). L’Italia ebbe sui campi di battaglia e nei territori di guerra oltre un milione e duecento mila vittime di cui circa 660.000 militari.

Questo premesso, “la guerra è guerra e gli affari sono affari”, così l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA) in seguito a un decreto del governo in carica si inventò una “Polizza speciale di assicurazione mista a favore dei combattenti”. La polizza, che presenta alcuni aspetti alquanto curiosi per non dire “cavillosi”, certamente fu propagandata tra le truppe al fronte e stipulata nei vari reparti di appartenenza. Infatti il documento, oltre alle firme prestampate del Presidente del consiglio di amministrazione, del Consigliere delegato (INA), del Ministro del Tesoro, del Ministro per l’industria il commercio e del lavoro, porta in calce la firma del militare assicurato, del Comandante e il timbro del reparto di appartenenza. Considerando la “paga del soldato” è facile intuire che per stipulare questa assicurazione il militare doveva farsi spedire i soldi da casa così come è stato per il caporale del Genio teleferisti Armando Petacco da Castelnuovo Magra, nonno dell’amico Carlo.

La polizza, di cui non si conosce il costo, fu stipulata a favore del fratello più piccolo di Armando e precisa:

L’INA pagherà a Petacco Italo di Giovanni la somma di 1000 lire (una bella cifra per quei tempi) immediatamente dopo la morte* del sig. Petacco Armando di Giovanni……

Attenzione all’asterisco che richiama alla nota di fondo pagina: Escluso il caso di morte in combattimento, a seguito di ferite riportate combattendo o a causa di servizio di guerra.

In ogni caso se il titolare dell’assicurazione Petacco Armando dovesse sopravvivere alla guerra, alla malattia e ad altri successivi eventi potrà ritirare, lui stesso, la somma di mille lire trenta anni dopo dalla stipula della polizza e cioè nel 1947. A quella data era finita anche la seconda guerra mondiale e con mille lire si comprava poco più di un chilo di carne bovina.

Però a termine di legge l’assicurato avrebbe potuto ritirare, finita la guerra (1918) e tre mesi dopo la smobilitazione, l’importo previsto dalla polizza a condizione che il valore di essa sia rinvestito con le opportune garanzie in strumenti di produzione e di lavoro.

Non è mai facile recuperare i premi assicurativi in denaro sonante per i codici o i codicilli che contengono le polizze anche quando sono garantiti dalla legge e sottoscritti da una serie di ministri e autorità garanti, ma nel caso specifico di queste polizze più che a favore dei combattenti sembrano degli imbrogli nei confronti di chi stava servendo in armi la patria.

Dialogo tra borgana e campagnolo

Colloquio tra una “borgana” e un “campagnolo”

C’era una volta…, non si tratta dell’inizio di una favola ma di una amara realtà che sta affliggendo (soffrendo) il nostro centro storico così bello, così signorile, forse un po’ snob ma malinconicamente desolato e decadente.

Il capoluogo, da sempre sede del palazzo comunale, nel 1951(primo censimento ISTAT dopo la guerra)   era la frazione numericamente e percentualmente più abitata del comune, oggi conta poco più di quattrocento persone.

“C’era il teatro dove facevano anche il cinema e recitava la compagnia dei filodrammatici,” racconta la Borgana

“Poi hanno costruito prima un cinema poi due al piano e hanno chiuso il teatro e la compagnia dei filodrammatici,”aggiunge il Campagnolo.

B “C’era la caserma dei carabinieri in via Dante…”

C “ Da qualche anno i carabinieri si sono trasferiti in via della Pace, al piano.”

B “C’erano le scuole elementari e medie, il medico condotto, tre ostetriche, un dentista una farmacia.

C “Ora tutti i ragazzi li portano alle scuole di Palvotrisia. Gli ambulatori medici e le farmacie sono al piano tranne una che fa servizio anche in paese.”

B “ C’erano ben sette tra bar e osterie”.

C “Ora i bar più o meno alla moda sono al centro commerciale, Molicciara e Colombiera.

(segue sul giornale)....

Pino Marchini

Informazioni aggiuntive