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Il pane in cassetta

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IL PANE IN CASSETTA

Memorie, ricordi. Paragonando il meccanismo della memoria umana all' analogo funzionamento di ottimo calcolatore, si può ritenere che i nostri ricordi siano racchiusi in una sorta di scatola nera di quelle in uso sugli aerei e che ad essi si può fare richiamo ove ne sussista la necessità o la opportu­nità di volta in volta.

Ma non è così semplice. Mentre nel computer, digitando sulla tastiera o premendo un pulsante si può richiamare qualsivoglia cognizione, fatto oggettivo, fatti correlati, emozioni ecc, la mente dell' uomo, a causa di processi chimici-neurologici ancora misteriosi può fare degli strani scherzi. Io posso non ricordare quello che ho mangiato la sera prima o quello che è accaduto il giorno prece­dente e viceversa posso ricordare quello che mi accadde nell' adolescenza o nell' infanzia. Perché dico questo? Perché io ricordo quello che accadde quando avevo 7-8 anni e son sicuro che non lo scorderò tanto facilmente, a meno di sempre possibili, e direi anche inevitabili degenerazioni o offuscamenti mentali.

A quell' età, siamo nell' inverno fine 1944 inizio 1945 in piena seconda guerra mondiale, si instal­lò in casa mia una specie di comando della Wehrmacht.

Il comandante era sicuramente un ufficiale tenente o capitano e questo lo si poteva evincere dal berretto che portava con la visiera e tanto di insegne di grado: il ricordo di questo copricapo è ben nitido.

Per quanto ne capivo io 1' ufficiale comandava una compagnia di soldati con compiti di logistica e di sussistenza che forniva servizi a gruppi di combattenti tedeschi a ridosso della vicina linea gotica. Lo rivedo seduto ad una scrivania (una cattedra asportata dalla vicina scuola elementare) intento a scrivere, telefonare e sbraitare ordini a destra e a manca.

Fra le varie incombenze che aveva vi era anche quella di predispone il rancio per i vari militari del­la zona e per quelli che si alternavano provenienti dal fronte.

Nel giardino adiacente alla mia abitazione era stata installata una grande cucina da campo su quat­tro ruote con una enorme caldaia al centro perennemente in ebollizione e dalla quale effluivano i profumi più svariati. Dati i tempi, e questi erano tali in cui non sempre si aveva la certezza di avere qualcosa da mettere sotto i denti quella cucina era diventata il luogo preferito del mio girovagare quotidiano. A onor del vero in un modo o nell' altro mia madre riusciva quasi sempre a mettere in­sieme qualcosa che assomigliasse ad un pranzo o a una cena e la fame, quella vera intendo, non ri­cordo di averla patita o me la sono scordata.

Ma io nel mio girovagare avevo notato che molti tedeschi, dopo aver mangiato il contenuto della loro gavetta proveniente da quel gran pentolone, tenevano in mano una gran fetta di pane a forma di quadrato, di color molto scuro, con sopra un sottile velo di burro, grasso o margarina che fosse.

Si trattava, seppi poi, di quello che gli italiani chiamavano il pane in cassetta. Un pane che si mette­va a lievitare e a cuocere appunto in una cassetta metallica e che una volta estratto dal contenitore assumeva la forma di un grosso parallelepipedo. Il "nero" era dovuto al fatto che era costituito prevalentemente di segale. Durava parecchio tempo e a quanto sembra era una importante componete nella dieta dei tedeschi.

Ebbene, voi non ci crederete, un po' per la fame comunque sempre presente, un po' per ala curiosi­tà verso questo alimento sconosciuto, io mi ero messo in mente di dover mangiare una fetta di quel pane con quello che ci stava sopra.

Si, ma come fare? Mia madre alla quale mi ero rivolto non poteva certamente aiutarmi. Era impen­sabile che si potesse rivolgere ad un militare per chiedere una cosa del genere! Eppure io volevo quel pane!

Allora, armatomi di coraggio e sospinto dalla curiosità, mi avvicinai al cuciniere addetto al pentolone. Io, alto si e no un metro, calzoni corti, zoccoli ai piedi, lo afferro per un lembo della giacca della divisa e io strattono cercando di fargli capire quello che volevo. Cosa più semplice a dirsi che a farsi! Lui, un omaccione di quasi due metri, non capiva me, io non capivo lui. Allora, mimando con le mani il gesto di tagliare il pane e di mettere sopra la fetta uno strato di burro, ritenevo di es­sermi fatto intendere.

Per tutta risposta il tedesco mi afferra per una gamba e scoperchiato il pentolone mi mette a testa in giù sopra di esso dove era in ebollizione una enorme quantità di patate. Che fossero patate lo ricor­do con precisione e lo rivedo ancor oggi; il resto, quello che sentii, fu un gran coro di risate da par­te del cuciniere e dei vari soldati presenti.

Sopra tutti gli schiamazzi, il gran strillare mio e di mia sorella che, sebbene più piccola di me di quasi tre anni, ricorda perfettamente il fatto ed è in grado di confermarlo.

Come finì? Il tedesco, riposizionatomi a terra, dopo avermi affibbiato un benevolo scappellotto, mi mise fra le mani una grossa fetta di quel pane con un leggero strato di qualcosa sopra. Io non so se era burro o margarina, del resto la differenza non la conoscevo davvero, so solo che tutto contento andai a mangiarmela da qualche parte e vi dirò che sul momento mi parve la cosa più buona del mondo. Così come 1'avevo immaginato!

Oscar Guastini